Il 5 Gennaio del 1987, se imboccavi Via Curio Dentato provenendo da Viale Brin  e giravi subito a destra, sotto a quello che pareva più una discenderia di garage piuttosto che una via, ti ritrovavi a costeggiare il Serra in via della Bezzecca. Se poi da via della Bezzecca, per strani disegni del destino, voltavi in via Volturno, capitava di trovarti catapultato in quella piazzetta che in realtà piazzetta non era. Era solo via Volturno che si intersecava con via Fratelli Moretti e Via Calatafimi, che in realtà via non era perché era appena un vicolo.

 

Quella sera, proprio in quella piazzetta che non era una piazzetta, un padre fermò la macchina davanti a un portone di legno. Tolse la chiave dal quadro e disse al figlio:

 

– Tu rimani qui dentro, non ti muovere e non toccare nulla. Io torno subito.

 

– Dove vai?

 

– Salgo un attimo da un amico a prendere una cosa.

 

– Vengo anch’io!

 

– No, tu stai qui! Non vorrai mica che ci rubino la macchina nuova?

 

– Ma quanto ci metti papà?

 

– Poco.

 

Scese dalla Opel Kadett Caravan 1.3 GLS del 1986 nuova di zecca e mentre stava per richiudere lo sportello, suo figlio, dai sedili posteriori, si sporse in avanti chiedendogli:

 

– Papà cosa c’è in quella busta gialla? – indicando la grande busta da referto appoggiata sul sedile del passeggero, che conteneva l’ortopanoramica di sua madre.

 

– Niente, c’è semplicemente una lastra di tua madre.

 

– E che cos’è una lastra?

 

– Una lastra è una specie di fotografia, ma che non deve essere toccata, specialmente dai bambini. Ci siamo capiti?

 

Chiuse finalmente lo sportello, avviandosi verso il portone. Suonò il campanello e rimase in attesa sotto a quel palazzetto di due piani con le persiane verdi, illuminato male da un piccolo lampioncino che però bastava a svelare i muri umidi e scrostati dall’intonaco. Giacomo vide il padre scomparire come inghiottito dall’atrio scuro, attraverso i vetri appannati della macchina. Faceva freddo e lui lo percepiva tutto, pur avendo appena quasi undici anni. Cercò la sciarpa che aveva lanciato qualche minuto prima sulla cappelliera e pensò che le vacanze natalizie stavano per terminare. Forse era per quello che suo padre lo aveva portato con lui quella sera, nonostante fossero le nove e mezzo, nonostante sua madre avesse fatto una timida opposizione con la scusa del freddo. Ora era da solo, si annoiava dentro il profumo della macchina nuova che già si era imbevuta dell’aroma di MS morbide del padre. Non era un granché, ma in fondo, lì dentro, era più eccitante che starsene a casa. Con un piccolo balzo, stando attento a non sporcare la tappezzeria nuova, si mise seduto sul sedile del guidatore. Posò delicatamente le mani sul volante, facendo scivolare i palmi sulla plastica lucida, proprio come faceva suo padre prima di impostare una curva. Passò in rassegna tutte le leve: frecce, tergicristalli e cambio. Modulò tutte le manopole dell’areazione. Infine aprì il cassetto porta oggetti del cruscotto. Dentro c’erano dei documenti, un fumetto di Tex Willer e una bottiglietta a forma di Madonnina, piena di acqua santa di Lourdes. Era tutta trasparente, con le manuzze giunte al petto e un tappo blu, a forma di coroncina. Ce l’aveva messo sua madre, ci avrebbe scommesso. Col pensiero della madre, Giacomo voltò lo sguardo verso la busta gialla della lastra. In quel momento trasse dalla tasca un cioccolatino boero che il padre gli aveva comprato qualche minuto prima, quando durante il tragitto si fermarono in al Bar ACI  per comprare le sigarette. In realtà i boeri erano due, ma uno se lo era mangiato subito, tanto che ancora aveva in bocca il retrogusto di cherry. Mentre intaccava con gli incisivi il sottile strato di cioccolata che lo separava temporaneamente dall’esplosione di liquore e ciliegia, prese la busta gialla e ne estrasse la lastra contenuta all’interno. L’appoggiò al finestrino nella controluce del lampione e rimase paralizzato dal terrore. Gli sembrava di tenere in mano un teschio terrificante, con le orbite scure dai contorni lattiginosi. Con mille denti aguzzi, bianchi come la morte. D’improvviso un enorme cane nero si avvicinò al finestrino, facendolo urlare e sobbalzare all’istesso. Il cane si dileguò subito. Giacomo si guardò intorno. Fuori dalla macchina non c’era anima viva. Solo buio e freddo. Si sentì solo e spaesato mentre fissava l’immagine nera del teschio fantasma caduta sul tappetino. Ora aveva paura. Si accorse che, nonostante il freddo, le sue mani erano sudate e il suo cuore galoppava. Pensò che se fosse stato ancora giorno sarebbe potuto correre fino alla vicina Via Bertolotti nell’officina di suo zio Giorgio, quello che aggiustava le macchine, magari sarebbe potuto andare a prendere un pezzo di pizza da Vitaloni. Non ci pensò due volte, tirò a se la maniglia dello sportello, scivolò fuori e raggiunse il portone della palazzina scalcinata in punta di piedi. Il portone di legno era pesante, ma aperto. Si appoggiò con tutto il peso del corpo, ritrovandosi dentro uno squallido androne, nella penombra dell’angoscia amplificata dalle piastrelle di graniglia. Gli pareva di vedere teschi fantasma ovunque. Tanto che, di slancio, salì a due a due le grigie scale di granito fino ad arrivare al pianerottolo del primo piano, dove appoggiate, vicino a una porta socchiusa, c’erano degli stivali di gomma e una vecchia bicicletta da donna. Bussò timidamente ed entrando disse:

 

– C’è qualcuno in casa? – ma sembrò non rispondergli nessuno.

 

L’appartamento era buio e puzzava di muffa. Attraversò tentennante un corridoio lungo e stretto, le cui pareti erano tappezzate di numerosi santini, tra cui notò le facce di Padre Pio e di Gesù. Sopra una mensola, una Madonna vestita di nero sotto una polverosa campana di vetro. Alla fine c’era una porta. Entrò. Il soggiorno era spoglio, col pavimento di mattonelle sbeccate e sconnesse. Come unico arredamento una vecchia poltrona di velluto verde, un paralume dalla luce fioca e un tavolino da tè. Sul tavolino, delle carte da gioco piacentine, disposte a croce. Alle pareti, solo un calendario e una cornice ovale con la foto ingiallita di una vecchia coi capelli raccolti in crocchia. Tra quelle mille rughe, gli occhi della vecchia gli parevano che lo stessero scrutando. Da uno spiraglio di porta sulla destra intravide la cucina, con il camino acceso, pieno di cenere, sulla cappa teste d’aglio e una piccola collana di peperoncini.

 

– C’è qualcuno in casa? – disse un’altra volta, ma con la voce tremolante della paura.

 

Nessuna risposta e nessun rumore, escluso un monotono cigolio che aveva notato non appena mise il naso dentro l’appartamento. Ad un tratto quel cigolio aumentò di frequenza e intensità. E in quel rumore gli parve di riconoscere i fiotti di sofferenza del padre mischiati ad un’altra voce, più stridula, come quella di una strega, che a un tratto gridò:

 

– Seeeeee accussì! Accussì Anto’! Non te fermassi! Seee se se se seeeeeeee…

 

Poi scese di nuovo il silenzio, ma stavolta senza più quel cigolio monotono e costante. Sentì vibrare sotto i piedi il pavimento, la fibbia della cinta di suo padre tintinnare come una campana solenne e lontana e quella con la voce da strega dire:

 

– Anto’ non te dimenticà de mettere ‘e ventimilalire sul comò!

 

– Stavolta te le sei meritate. Ora metti su il caffè, và!

 

Poi un rumore di acqua scrosciante e nient’altro. Il ragazzo rifece il percorso a ritroso nel buio corridoio verso la porta d’ingresso. Tutto d’un tratto gli era passata la paura, sostituita da un sentimento strano, che non riusciva ad interpretare. Ma non era vero, perché solo ciò che non si comprende è da interpretare. Invece ormai aveva sentito, aveva ascoltato. Prese quindi a correre giù per le scale e uscì in strada. Avrebbe voluto che qualcuno avesse rubato l’Opel Kadett, ma la macchina era ancora lì. Rientrò in macchina e si mise a sedere sul sedile posteriore nascondendosi il volto con il cavo delle mani. Allargò le dita e ci guardò attraverso. Quel teschio stava ancora lì, sul tappetino, illuminato di sbieco da un piccolo fascio di luce giallognola. Quel teschio, per Giacomo, ora non era più un fantasma. Quel teschio ora era solo una lastra, una foto dei denti di sua madre. Quella madre con la quale adesso avrebbe voluto rannicchiarsi, rinchiudersi, nascondersi sotto al piumone enorme, per non vedere quei muri scalcinati e quei tetti bianchi gelati dalla brina. Gli dolevano le gambe, aveva gli occhi umidi di sonno e sbadigliava. Non riusciva a valutare se era notte da qualche minuto o da mezz’ore intere, ma da fuori entrava buio, tanto buio e freddo. Giacomo comprese. Comprese la notte e i tortuosi percorsi tra i quali ci si fa più uomo e meno bambino. Scese di nuovo dalla macchina. Si mise sul marciapiede di fronte, accanto al lampione a guardare, in alto, verso le finestre del primo piano, dentro alla casa che sapeva di muffa e camino.

 

Era dannatamente bello sapere di avere i piedi saldi sulla terra, occhi apertissimi, naso che funziona, orecchie che oltre ad ascoltare sanno anche vedere. Sapere di essere capace di rallentare il tempo fin quasi a fermarlo nel silenzio. In quel momento per Giacomo divenne anche dolorosamente tutto un po’ più chiaro, persino la tabellina del sette. Proprio mentre suo padre usciva dal portone sorprendendolo dall’altra parte della strada col naso in su.

 

– Che ci fai lì? Non ti avevo forse detto che non dovevi muoverti dalla macchina?

 

– Sì, ma tu non tornavi mai.

 

– Forza dai, muoviti! Entra dentro.

 

Giacomo si adagiò sul sedile posteriore con le mani dentro la tasca della giacca a vento. Suo padre girò la chiave sul quadro e partirono di getto i tergicristalli e la ventola di areazione dell’aria dell’abitacolo.

 

– Non ti avevo per caso detto anche di non toccare nulla?

 

– Sì ma mi stavo annoiando. A proposito, come si chiama il tuo amico?

 

– Alvaro. – disse l’uomo mentre si accendeva una MS morbida con gli occhi bassi verso l’accendisigari.

 

Cominciò a piovere finissime gocce. Giacomo fu preso da uno slancio:

 

– Papà domani me lo compri He-Man?

 

– Giacomo, sbaglio o ti ho detto già ieri che non ho i soldi?

 

– Sì ma le ventimilalire per Alvaro cinque minuti fa ce le avevi!

 

Suo padre inchiodò di colpo facendo scivolare le gomme nuove sull’asfalto bagnato, proprio davanti alle vetrine di Pileri Casa. Si girò di scatto e gli mollò un ceffone a mano aperta che gli prese contemporaneamente tempia e nuca, facendolo sdraiare sul sedile. Mise la freccia e ripartì lentamente, fumando ad ampie boccate. Nell’abitacolo piombò di nuovo il silenzio. Fumo, freddo e silenzio.

Giacomo si ricompose a schiena dritta e non versò nemmeno una lacrima. Era felice di essere stato bravo a comprendere qualcosa di una segretezza assoluta, che ora apparteneva anche a lui e che si sarebbe tenuta dentro, tutta per se, per renderla ancora più potente. Ora sapeva con certezza che la conoscenza è un vedere, ma anche un sapere di aver visto. Sapere che non si vede solo quello che tutti possono vedere. Sapere che ci sono varie angolazioni per la visione della verità.

Il padre, dal canto suo, in quel momento, aveva dimostrato tutto fuorché la saggezza. Le parole del figlio gli fecero perdere la tolleranza, gli impedirono la clemenza, gli tolsero l’ultimo grammo d’indulgenza. Tanto che commise lo sbaglio più grande, quello di tagliare il nodo con la spada invece di scioglierlo delicatamente con le dita.

Giacomo non glielo avrebbe mai perdonato.

Ma accettò anche stavolta uno dei suoi momenti di consapevole deriva, accendendosi un’ennesima MS morbida.

 

Si mise a piovere in maniera meno gentile, proprio mentre erano fermi ad un incrocio.

Il rosso del semaforo filtrato da parabrezza gli tinse la faccia. Gliela fece cattiva e imperdonabile.

In quel preciso momento Giacomo incrociò gli occhi del padre impegnati e riflessi nel retrovisore.

Ma erano occhi buoni, da animale abituato alla fuga.

Da chi sa che alla fine tanto la soluzione si trova.

 

 

di Juri Cambarau