Il Parco è l’unico spazio verde rimasto in città dopo l’esplosione dell’inceneritore avvenuta nel 2065.
Dopo il disastro dell’inceneritore, il Distretto4 fece costruire una cupola trasparente di plexiglassv3 studiato apposta per preservare il Parco e con uno speciale sistema di ingresso per le persone. La cupola di plexiglass-v3 è talmente resistente da sopportare anche l’esplosione di un ordigno di media portata.

 

Terni, anno 2090.

È di nuovo mattina. Un sole timido ha cercato di entrare nella mia camera per una buona mezz’ora ma non ce l’ha fatta, complice una tapparella ben chiusa stile veneziana con listelli verde bottiglia e un paio di belle nuvole più scure su un cielo grigio perenne.

Come ogni mattina, la mia casa mi sta cacciando via. Il tempo di dare una rinfrescata alla faccia addormentata,una spazzolata ai denti e un paio di spruzzi di deodorante che serviranno soltanto a tacitare la coscienza per non essermi fatto la doccia. E sono fuori casa.
Cammino annoiato, mentre la gente che non ha insonnia dorme sonni diossina-tranquilli su letti comprati a rate.  L’aria è respirabile soltanto per mezz’ora ogni sei ore. Abbasso la sciarpa con i microfiltri e cammino più dritto verso il 24H-XXX.

Superando il Parco, sotto la cupola, vedo ancora muoversi l’altalena e penso.
– È stata qui. È il suo turno.
Due ragazzi strafatti di omniric mi vengono incontro barcollando. Li schivo. So che non faccio parte del loro “sogno”.
Mi fermo sul ciglio della strada, guardo a sinistra e poi a destra. Un paio di ragazzini su overboard
mi sfrecciano davanti a novanta chilometri orari.
Attraverso la strada e sono arrivato.

Entro nel 24H-XXX, quello che un tempo si chiamava Bar Aci.
Quando ero piccolo, mio nonno me ne parlava sempre, soprattutto la domenica quando venivamo a fare colazione qui e lui comprava le sigarette di nascosto da nonna. Mi raccontava di nottate intere a bere con gli amici, finite poi in questo bar a smaltire quel che rimaneva di una sbornia. Diceva che
era cambiato, che non era più come prima.

Entro nel 24H-XXX e la puzza di candeggina mi invade tutti e cinque i sensi, all’istante. Le luci al neon blu dell’ingresso enfatizzano le varie forfore di tutti i clienti. Il bancone grigio con strisce di led luminosi verde acido ospita sei gomiti di plurialcolizzati con facce scavate da solchi di nottate senza sonno.

Tiro dritto e vado direttamente nella stanza dei peepshow dove ragazze procach ballano per 24 ore in vetrine dai colori fucsia acceso, blu acceso, viola acceso, facendo soste di mezz’ora ogni sei ore. Gli spettacolini (è così che vengono chiamati) costano una monetina per venti minuti, due monetine
quarantacinque minuti.

Le ragazze vengono prese dalle periferie più degradate e buttate dentro questa nuova vita. La loro vita è legata al contratto di lavoro, il contratto di lavoro è sciolto solo con la morte.

Tiro dritto e vado direttamente nella stanza Numero 4, dove so che ci sarà Lei.
Scavalco tutte le vetrine in cui prorompenti Ragazza1 – Ragazza2 – Ragazza3 mi strizzano i loro occhi felini, con tette rifatte e labbra ultrabotox in cerca di quarantenni giacca e cravatta, con la voglia di tenerezza in versione monetina.
Non mi interessano. Io voglio Lei, vetrina colore rosso acceso.
E dopo un corridoio di slotmachine, dove signore anziane pasturano macchinette videopoker come fossero piccioni al parco, finalmente arrivo alla stanza Numero 4.

Lei ha un nome ma purtroppo non vuole dirmelo. Lei è bionda, lei è bellissima. La pelle è colorcorretta dalla luce rossa dei led.
Entro in cabina, mi siedo, infilo la monetina. I vetri esterni si oscurano. Siamo io e Lei. Soli. Sotto il pesante trucco del viso due occhi sinceri e liquidi mi guardano e per un nanosecondo sembrano dirmi “portami via”. Il pensiero viene scacciato immediatamente dalla musica assordante “liquidwave”, diffusa nella cabina insieme a essenze profumate a mia scelta. Il tutto per annientare i due sensi che nel peepshow sono più difficili da soddisfare.
Si alza in piedi e gira un paio di volte attorno al centro della cabina accarezzando la moquette nera con piedi curatissimi. Improvvisamente si inginocchia davanti al mio vetro, mi guarda fisso nei miei occhi. E tutto il resto è spettacolo trito e ritrito.

– Ti porterò via. – sussurro ad un vetro sordo. I suoi occhi leggono un labiale timido. La sua bocca si
schiude in un accenno di sorriso, scacciato via immediatamente dalla pseudo-devozione a questo
truce lavoro. E tutto il resto è spettacolo trito e ritrito.

La prima volta che l’ho vista è stata una mattina qualsiasi, di quelle con il sole timido su sfondo cielo grigio perenne. Era vestita di nero, seduta su un’altalena del Parco dietro al Bar 24H-XXX. Ho pensato “è bellissima”.
E la mia mente già scriveva sceneggiature dello stesso film, in cui io e Lei cercavamo disperatamente di dare un senso ad una vita monolavoro, monorotaia, monoserate, monossidodicarbonio, monogamia, in una convivenza monolocale.
Ogni volta che passo davanti al Parco e vedo l’altalena muoversi penso a Lei.
L’altra notte, proprio su quella altalena, le ho lasciato un biglietto: speriamo che l’abbia letto. Finito lo spettacolo non vado via, lei si gira e sta per andarsene. Io busso con forza sul vetro, lei si gira.

– Aspettami fuori. – mi dice, attraverso il labiale filtrato dal vetro, lontano dalle telecamere a circuito chiuso, a venti centimetri dalla mia bocca.
Eseguo gli ordini.

Sono dieci minuti che sto nel Parco, sotto la cupola. Nonostante qui dentro l’aria sia filtrata, ho come l’impressione di morire soffocato. L’ansia mi sta mordendo lo stomaco ed i polpacci, come un cane ben addestrato dai denti ben affilati.
“Quanto ci mette ad uscire. Non abbiamo molto tempo.”

Finalmente la vedo uscire dal 24H-XXX, insieme alle altre ragazze.
“l’idea della pausa è stata ottima”.

Lei e le altre ragazze entrano nella cupola. Il Parco a quest’ora è semivuoto. I tossici sono in pausa pranzo e i bambini vanno a scuola. O viceversa. Tanto è uguale. Mi sistemo accanto all’altalena. Il cuore mi rimbalza dentro come la batteria elettronica di Behind the weel dei Depeche Mode: incalzante, struggente, emozionante.
Lei cammina con passo leggero, la testa in avanti con i capelli a coprire una parte di viso, con il rossore di chi sta troppo tempo in un posto chiuso e poi respira (se così si può dire) un po’ di mondo esterno. Quanto sono stupido. Ancora una volta non mi do pace che una come Lei possa uscire con uno come me. Ancora una volta non voglio accettare il fatto che una come Lei possa arrossire per uno come me.
Una volta entrata nella cupola riesco a sentire il suo profumo. Sono l’uomo più felice di questo grigio mondo.

– Ciao. – esordisce, con un sorriso pieno.
– Abbiamo poco tempo… – le dico.
Mi interrompe: – Un attimo solo.. Poi mi spieghi tutto.

Si avvicina a me, venti centimetri di distanza tra me e Lei.
E senza preavviso mi bacia. Finalmente posso godere anche io di quelle labbra. Finalmente posso rompere il vetro che c’è tra noi.
Mi illudo di essere il primo ragazzo ad averla mai baciata. Come Neil Armstrong si illuse di essere il primo uomo a mettere piede sulla Luna.

– Ora puoi parlare.
Faccio finta di non subire la sbornia di quel bacio: – Se sei qui vuol dire che hai letto il biglietto che ti ho lasciato stanotte.
Annuisce. – Funzionerà? – mi chiede titubante.
– Deve funzionare. Altrimenti moriremo.
– Siamo già morti.

Torna a baciarmi, questa volta un bacio veloce, preludio della sua testa sulla mia spalla, il suo orecchio sul mio cuore.
Entrambi chiudiamo gli occhi.

L’esplosione è fortissima e nonostante il plexiglass-v3 ho la sensazione di essere finito al tappeto. Riapriamo gli occhi e ciò che rimane del 24H-XXX è solo il vuoto, il nulla. La bomba che stanotte ho piazzato ha fatto il suo dovere.
Mi giro verso le altre ragazze, sono impaurite, non sapevano nulla, non dovevano sapere nulla. Alla vista di quel nulla esultano. Saltano, si abbracciano. Piangono e sono felici.

Io e Lei ci guardiamo negli occhi. – Siamo vivi… Sono viva, grazie. – mi dice, e una lacrima toglie un po’ di trucco da quel viso pulito.

Usciamo di corsa dalla cupola, dal Parco, da tutto e da tutti. Ci dobbiamo sbrigare. Dobbiamo solo fuggire.
L’auto è parcheggiata lontana.
Una volta dentro l’auto ci rilassiamo. Lei inizia a struccarsi e ogni tanto mi sorride mentre io guido senza fatica, con in testa soltanto queste parole:

Sei bellissima.
Scriverò per te sceneggiature dello stesso film, in cui io e te cerchiamo disperatamente di dare un
senso ad una vita monolavoro, monorotaia, monoserate, monossidodicarbonio, monogamia, in una
convivenza monolocale.

 

di Filippo Proietti